Quando l’ospedale diventa casa

Al traguardo non si arriva da soli: dal blog 46percento, la testimonianza di Giovanna Rossi

Ospitiamo volentieri la testimonianza di Giovanna Rossi una delle due cittadine che, dal palco, hanno introdotto il Presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso della cerimonia inaugurale di sabato 11 giugno.
 
Giovanna e Marina - 11 giugno 2016
Non ho parlato così spesso della mia esperienza in ospedale, anche se lì è partito tutto o quasi. Spesso ricominciare innesca dentro di noi meccanismi potenti che propagano a lungo la loro energia. L’ho detto altre volte, questo sì, dover imparare di nuovo a camminare mi ha fatto venire voglia di correre. E come è andata a finire si sa.

46percento è un diario piuttosto intimo e oggi c’è più sport che malattia nelle mie giornate, grazie a Dio. A contare gli articoli di questi mesi sono molti di più quelli che parlano di triathlon o di maternità, lo considero un bel segno per me. Ma l’inaugurazione del CORE, qualche giorno fa a Reggio Emilia, alla quale Marina Davolio e io abbiamo avuto l’onore di presenziare, mi ha riportata a una dimensione fondamentale della mia storia. I giorni di ospedale: la sofferenza fisica estrema, la gratitudine per chi mi ha accudito, la paura di non tornare più come prima. Sentimenti ed emozioni che ti cambiano per sempre. Che per sempre mi hanno cambiata.

“Dalle nostre storie abbiamo imparato prima di tutto che si può guardare oltre la malattia, che si può continuare a sperare, si può ancora sorridere alla vita. Lo abbiamo imparato grazie a chi ci ha amato nei momenti bui, ma anche grazie ai medici, agli infermieri, al personale che ci ha regalato un sorriso rifacendo la camera o alla cassa del ticket. Prima di tutto abbiamo imparato che nessuno arriva al traguardo da solo.”

Quando ho cercato le parole da pronunciare, smarrita per il grande compito cui mi sentivo chiamata (ndr: salire sul palco nel corso della cerimonia inaugurale del CORE e dare la parola al Premier Matteo Renzi), cercavo qualcosa che potesse davvero dare un senso al nostro essere là, in un momento tanto importante per la città di cui sono da pochi anni cittadina. Là, in mezzo a medici, infermieri e volontari che vedevano realizzare un sogno, l’inaugurazione del CORE, la materializzazione di un’utopia. Ci ho pensato giusto un attimo, poi le parole sono fluite spontanee, come se fossero lì da tanto tempo pronte per essere pronunciate. Solo dopo, quando le ho rilette e mi sono commossa, ho capito che avevo scritto esattamente quello che volevo dire. Da quei giorni in ospedale nel 2008. Esattamente quello che provo nei confronti di tutte le persone che ho incontrato in ospedale e nei successivi mesi in riabilitazione. Persone destinate ad entrare nella tua vita per pochi giorni, a volte solo per qualche ora, ma destinati a rimanere per sempre nei tuoi ricordi.
Quella che hanno è una responsabilità immensa. Non solo perché spesso hanno la nostra vita nelle mani ma perché hanno nelle mani la nostra speranza e la nostra forza.
Il paziente è fragile per definizione e quando si è fragili è come essere senza pelle. In questi momenti le parole e i gesti risuonano come nelle casse enormi di un concerto. Amplificati e assordanti. E questo vale per i gesti di stizza, la noncuranza, la fretta come per la cura, l’attenzione, i sorrisi.

Ricordo un episodio, intimo, quasi irraccontabile. Ma sono questi episodi che fanno la verità che ti segna. La verità che ti cambia. Dopo gli interventi come quello che ho subito alla spina dorsale sei costretto immobile a letto per diversi giorni, senza mangiare. Quando riprendi a muoverti e a nutrirti normalmente la procedura prevede un clistere per riattivare le funzioni intestinali. Ovvio che, come immagino ogni santo paziente prima o dopo di me, ho cercato con tutta me stessa di evitarlo, utilizzando tutte le mie doti di persuasione, ma nulla, niente da fare.

Ecco immaginate una persona stesa a letto, immobile. Immaginate che ci siano anche complicazioni di irritazione al colon e immaginate una donna di 37 anni tutta la notte dolorante per la schiena e per la pancia con un comodissimo pannolone da cambiare diciamo ogni 2 ore o anche meno.

Soprattutto immaginate il sorriso dell’infermiera che si è fatta tutta la notte avanti e indietro a cambiarmi. Perché sì, arrivava sorridendo ogni volta e io dicevo: “Scusa, perdonami..” e lei: “Ma sei matta? È il mio lavoro!” Ecco, io quel sorriso non lo dimenticherò mai. Mi è rimasto appiccicato addosso. Ed è di quei sorrisi che senti il bisogno di restituire nella vita.
Quei sorrisi che sembrano far bene ad una persona sola, invece trasformano il mondo in un posto migliore.

Per questo penso che nessuno arrivi al traguardo da solo. Perché sono stata anche ferita nelle mie vicissitudini ospedaliere e di vita, come tutti d’altronde. Ma finché ci sono volontari, medici e infermieri che hanno ancora sorrisi per noi pazienti, sono certa che ci sarà sempre più vita che malattia. Anche in ospedale, anche lì dove la sofferenza è più buia e la speranza è appesa ad un filo. Lì dove in attimi insignificanti e interminabili diventiamo famiglia. Famiglia vera con perfetti e indimenticabili sconosciuti.

Grazie infinite e per sempre a tutti i medici, agli infermieri, al personale, ai volontari che si impegnano ogni giorno a regalare il loro sorriso e la loro cura. Grazie.

Giovanna Rossi
 
Prima di tutto: tre storie una sfida è un'iniziativa di Fondazione Grade onlus e Loto onlus, che ha visto tre atlete reggiane, con problematiche di salute, impegnarsi in una staffetta insieme per la 'Challenge Rimini 2016', una gara di triathlon internazionale svoltasi a Rimini l'8 maggio 2016, Giornata mondiale sul tumore ovarico. La sfida le ha viste impegnate in un triathlon su distanza mezzo Ironman: 1900 metri di nuoto, 90 chilometri in bici e 21 chilometri di corsa.
Nel blog ideato da Giovanna, www.46percento.it e sulla pagina Facebook dedicata, sono state raccontate la preparazione e, una volta iniziata la gara, anche le tappe di avvicinamento alla sfida (vedi anche #primaditutto).

Giovanna Rossi, Marina Davolio e Catia Cantarelli, che hanno attraversato periodi critici e invalidanti per le loro malattie, sostengono con forza l'importanza dello sport agonistico, non solo per la competizione e il divertimento, ma come strumento di riabilitazione, resistenza e tenacia, competenze utili anche fuori dall'ambito sportivo.