1 - Cosa si intende per Disturbi del Comportamento Alimentare, o anche denominati Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione?

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5) i disturbi alimentari sono riportati come “Disturbi della Nutrizione e dell'Alimentazione” (denominati comunemente con la sigla DCA). Sono malattie psichiatriche di grave impatto poiché condizionano profondamente le persone che ne soffrono e le loro famiglie e considerate le uniche malattie che coinvolgono corpo e mente. Inoltre, non bisogna dimenticare che l’Anoressia Nervosa è la seconda causa di morte, dopo gli incidenti stradali, nelle giovani donne.

Per DCA s’intendono: Pica, Ruminazione, Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa, DCA Altrimenti Specificati, DCA Non Altrimenti Specificati (DCANAS o anche EDNOS), Alimentazione Incontrollata (o Benge Eating Disorder-BED), Disturbo da Evitamento e/o da Restrizione del cibo (o ARFID).

In genere è definita come una patologia delle donne, perché il 90% della popolazione femminile ne è interessata, ma risulta essere un’affermazione non corretta in quanto anche la popolazione maschile è coinvolta ed è aumentata negli ultimi anni.

Le informazioni riportate di seguito fanno riferimento principalmente ai disturbi alimentari quali Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa, DCA altrimenti specificati e non altrimenti specificati, alimentazione incontrollata e disturbo da evitamento e/o restrizione dal cibo, sono dunque escluse le categorie “Pica” e “ruminazione”.

Chi ha un DCA:
  • È ossessionato dal cibo (o perché lo deve evitare o perché né deve mangiare molto);
  • è ossessionato dalle forme del proprio corpo, percepito come sempre inadeguato e di cui ne vuole avere il controllo assoluto;
  • ha una bassa autostima legata alle forme corporee;
  • tende a non mangiare davanti agli altri perché si vergogna;
  • soffre di forti sensi di vergogna e di colpa, vissuti sia per i comportamenti alimentari scorretti sia per qualsiasi scelta di vita attuata;
  • tende a non parlare di ciò che vive agli altri.


Le persone vicine a chi soffre di DCA e si trovano in uno stato di sconforto, generalmente:

  • pensano che i comportamenti alimentari scorretti siano scelte precise;
  • sperimentano reazioni di rifiuto e rabbia;
  • provano raramente compassione ed empatia;
  • si sentono impotenti davanti alla malattia e vivono la condizione di spettatori dell'autodistruzione della persona con DCA;
  • sperimentano vissuti di “impotenza” a momenti in cui pensano di “ sostituirsi” a chi è ammalato pur di aiutarli ad uscirne.

Se pensiamo che tendenzialmente si consumano cinque pasti al giorno, possiamo comprendere quanto sia difficile stare a fianco a qualcuno che, per più volte al dì, rifiuta di alimentarsi, oppure ingoia tutto con tale voracità e compulsività da non lasciar nulla agli altri.

In tali situazioni è difficile non perdere la pazienza. Quando si scopre che il cibo appena comprato è già finito, come accade a volte nelle famiglie dove è presente una persona con Bulimia Nervosa, oppure si è costretti a consumare i pasti sempre da soli, come accade quando in famiglia vi è una persona con Anoressia Nervosa, ci si sente impotenti, la comunicazione con l’altro è obbligatoriamente bloccata. Il sentirsi incatenati, senza possibilità d’azione, lascia una sensazione d’inutilità che non si riesce né a metabolizzare né ad accettare.

Un’altra situazione difficile da fronteggiare è quella che accade quando chi ha un DCA racconta delle bugie, soprattutto in riferimento al cibo consumato o all’attività motoria effettuata: chi è Anoressica dice che ha già mangiato anche quando non è vero o che ha svolto solo mezz’ora di attività motoria quando non riesce a stare nemmeno seduta quando gioca a carte con i familiari. D’altra parte chi soffre di Bulimia dice di non essere stata lei a mangiare il cibo che è scomparso in cucina o che non è stata lei a sporcare il bagno. In queste situazioni è difficile non arrabbiarsi, o desistere dallo smascherare la persona nella sua bugia.

Se ci pensate, in realtà, non è importante avere ragione ad oltranza, anzi se riuscite ad identificarvi con chi soffre di DCA vi renderete conto che in una simile situazione l’altro può sentirsi umiliato, angosciato, screditato, addirittura braccato da chi continua a insistere nel voler sapere la verità. In un tale contesto, capite che così non può andare. Bisogna cercare di mettersi sempre nei panni dell’altro.

Allora ha più senso chiedersi: Come sta la persona che fugge? Cosa sta provando in questo momento?

Cristina, ragazza di 18 anni, secondogenita di una famiglia che viveva in una grande casa realizzata su tre piani, che soffriva di bulimia nervosa e che mentre i suoi familiari dormivano, svuotava frigorifero e dispensa. Le abbuffate erano molto frequenti e si ripetevano nella giornata più volte, questo la costringeva a comprare e spendere tutta la paghetta settimanale prima del previsto. A questo punto le rimaneva solo, secondo lei, una possibilità: sottrarre denaro dai diversi portafogli dei familiari. Se loro se ne accorgevano negava di essere stata lei ma era poco credibile quindi finiva sempre in una gran lite con porte sbattute in faccia, scene drammatiche, la tensione si alzava e il clima familiare diventava invivibile. Il fratello si arrabbiava perché pensava che almeno con lui, lei potesse aprirsi e confessare, visto che non era un suo genitore, la madre si accendeva perché sentiva che non c’era la complicità che aveva caratterizzato il loro rapporto fino all’anno passato e il padre si adirava perché aveva perso la sua figlia prediletta. Accadeva anche che di notte, rientrata dagli incontri con gli amici, potesse sfogare la compulsione alimentare rifacendosi sul cibo comprato dai suoi genitori il giorno stesso. Il padre era un tipo goloso e buon gustaio, che dichiarava di mettersi a dieta un giorno sì e uno no, ma che poi desisteva. Cristina, una volta, si mangiò tutti i wurstel che il padre si era comprato, più altri cibi golosi e poi vomitò tutto dentro ad una busta di plastica che annodò e mise dentro ad un gran bidone dei rifiuti che era collocato in cucina. Quando il padre il giorno seguente aprì il frigorifero per uno spuntino scoprì che, la spesa acquistata il giorno prima, era sparita e trovò nel bidone i resti delle abbuffate notturne di Cristina. Questo ritrovamento lo fece ulteriormente imbestialire. Decise di parlarne con la moglie e con il primogenito. Il padre cercò il confronto con la figlia, la quale negò di essere stata lei a far tutto. A questo punto la famiglia riunita emise il verdetto: da quel giorno i mobili della cucina, la dispensa ed il frigo sarebbero stati chiusi con catenacci e lucchetti con combinazione segreta, Cristina avrebbe dovuto chiedere a loro il permesso prima di mangiare qualsiasi cosa e pensarono che questa strategia avrebbe contenuto le abbuffate improvvise della ragazza. La notte seguente per Cristina fu un problema d’orgoglio, riuscì a scoprire la combinazione, si abbuffò per tutto il tempo, vomitò e la mattina era stremata. Il padre si rese conto dello sbaglio. Anziché cercare veramente il confronto, il giorno prima aveva cercato il colpevole, di raccogliere la confessione della figlia e questo aveva complicato il rapporto già in difficoltà e compromesso la comunicazione.  Fu necessario molto lavoro terapeutico individuale e familiare per ricostruire un rapporto di fiducia tra le parti, facilitare un’efficace comunicazione, ma dopo due anni Cristina uscì dalla malattia.

 

Arianna 37 anni, Anoressica dall’età di 12 anni che durante la terapia di gruppo aveva raccontato quanto era stato difficile fronteggiare la madre quando si rendeva conto che non si era alimentata. Arianna diminuì la sua nutrizione fino a raggiungere una massa d’indice corporeo (BMI) di 11 ed ad aver bisogno di un ricovero in ospedale, presso il reparto di pediatria, per alcuni mesi. Le bugie per Arianna erano un modo per allontanare la madre con la quale aveva conflitti. Era stata testimone involontaria, poco tempo prima della malattia, di un incontro amoroso che il padre aveva avuto con una sua amante, in quella occasione lui le aveva chiesto di non dirlo alla madre, doveva rimanere un loro segreto. Questa complicità con il padre l’aveva legata a lui doppiamente. Da una parte lo stimava perché operaio colto, intelligente, intraprendente e politicamente impegnato, dall’altra parte lo considerava un padre assente, un marito intermittente, poco affidabile e persona sfuggente. La sua rabbia, comunque, si sfogava solo sulla madre che viveva come debole, dipendente da un uomo che non le era mai accanto, affettivamente bisognosa di amore a tal punto da non far più domande al marito quando rincasava a ora tarda nella notte. Così le bugie sul cibo erano iniziate per riuscire a sentirsi diversa da entrambi.  Pensava che se fosse stata più magra i suoi genitori si sarebbero accorti di lei e della sua sofferenza in questa famiglia apparentemente perfetta.

Una persona che sta bene ed è serena con se stessa non ha bisogno di raccontare cose non vere o di comportarsi in modo bizzarro, no?

Se vi rendete conto che si è verificata una situazione simile ha più senso fermarsi, non insistere, ma riflettere su cosa può aver causato un tale comportamento. Scoprirete sicuramente che il vero motivo non ha nulla a che vedere con il cibo, ma che esso è solo un mezzo per segnalare il disagio.

Spesso viene utilizzata la metafora dell'iceberg per spiegare il disturbo alimentare: il comportamento con il cibo è la punta dell’iceberg! Non fissatevi sul risultato di un’operazione assai più complessa, ma cercate di capire cosa l’ha causato.

Nella nostra cultura quando incontriamo gli amici tendiamo a consumare qualcosa con loro: la colazione, il caffé, l’aperitivo, la cena, la pizza, il gelato.

Chi soffre di DCA tende ad evitare i momenti d’aggregazione e lentamente si isola proprio perché le persone non sono serene nell’affrontare il cibo, così come le relazioni.

Leonardo, era un ragazzo di 23 anni, iscritto all’università, che aveva sviluppato una Bulimia Nervosa. Figlio di genitori separati, la madre aveva sviluppato una depressione psicotica dopo ilsecondo parto, quello del fratello di sei anni minore. Leonardo ad otto anni aveva cominciato ad occuparsi della madre e del fratello quando il padre era al lavoro. Aveva imparato ad essere più attento alle esigenze degli altri che alle proprie. Questo comportamento lo condizionò e lo portò a sviluppare il DCA. Persona intelligente, molto sensibile ed attenta, si viveva sempre come inadeguato sia nello sport, pur ottenendo rilevanti successi, sia nello studio, pur raggiungendo buoni voti nonostante il poco tempo dedicato. Entrava in conflitto con se stesso se doveva decidere se andare all’aperitivo con gli amici o dare una mano al padre, se doveva studiare o pulire la casa della madre. Leonardo era consapevole di quanto fosse importante per lui studiare,  fare sport e contemporaneamente incontrare gli amici, ma lasciava che prevalesse il suo senso del dovere e rinunciava a ciò che era importante per lui per le cose degli altri. Quando prevaleva la dinamica rinunciataria passava tutta la sera e la notte ad abbuffarsi e vomitare. Come se la sua parte desiderosa di contatti umani si ribellasse e per il fatto di non essere stata ascoltata imponesse la giusta pena. Imparare a pensare prima a se stesso e ai propri bisogni e poi agli altri, senza sentirsi in colpa, fu l’argomento principale di tutto il percorso terapeutico.

A volte accade, invece, che chi soffre di DCA sia isolato dagli altri, perché gli amici dopo averli cercati ed invitati due o tre volte e aver ricevuto solo dinieghi, rinunciano e smettono di proporre loro qualsiasi tipologia d’incontro.

I DCA sono disturbi che minano le relazioni sia amicali che affettive. E’ come se le persone indossassero un paio d’occhiali che impedissero di vedere e leggere la realtà per quella che è. Questo perché hanno l’attenzione sempre indirizzata verso l’esterno, verso quello che pensano che gli altri vogliono da loro, anziché rivolta su se stessi, verso la propria interiorità.  Non si confrontano direttamente con gli altri, ma pensano che le loro percezioni siano vere e reali.

Eugenia paziente di 35 anni, raccontò quanto fosse in difficoltà con le amiche storiche, perché i comportamenti anoressici le impedivano di affrontare in modo sereno cene e incontri aggregativi e d’altra parte anche se era evidente il suo sottopeso, aveva impressione che le amiche non si fossero accorte della sua malattia. Dopo vent’anni di malattia le rimase solo un’amica, più tollerante perché impegnata con la famiglia acquisita e meno richiedente. Anche i rapporti col padre ed il fratello con cui viveva erano molto complessi, la madre era morta di cancro quando lei aveva 20 anni. Da 5 anni, aveva intrapreso una relazione con un uomo di 18 anni più vecchio di lei ma si dichiarava non innamorata, gli rimaneva accanto pur non riuscendo essergli fedele. Faticava nel dirgli quello che provava veramente per lui e contemporaneamente non riusciva a lasciarlo. Durante il percorso terapeutico ambulatoriale emerse come la figura della madre era ancora molto presente nonostante fosse mancata anni prima. Spesso la vedeva accanto a sé, in auto, in bagno, in camera da letto. La madre le parlava e le diceva cosa doveva fare, chi dovesse scegliere come partner, quale strada nella vita dovesse percorrere. Dopo due anni di terapia di gruppo, durante la quale accettò il confronto con altre partecipanti, che vivevano le sue medesime difficoltà anche se in modo differente, riuscì a stare in intimità con se stessa. Ci vollero anche colloqui individuali e familiari, per ristabilire una possibile comunicazione sostenuta con coraggio.  Fu un momento complesso, ma che servì per stabilire e capire cosa fosse importante per lei, quali erano i suoi veri sentimenti e come dichiararli a chi le stava vicino. Eugenia andava molto in ansia quando stava in contatto con se stessa e tendeva a scappare. Si appoggiava agli altri anche se li aveva appena conosciuti, soprattutto ad uomini conosciuti via internet, credeva più negli altri che in se stessa. Viveva sua madre come l’unica detentrice della verità, non ascoltare la sua voce che le parlava, le sembrava una cosa impossibile, ascoltare quello che veniva da se stessa non poteva avere lo stesso valore. Queste convinzioni furono difficili da superare, l’anoressia dimostrava che qualcosa del suo rapporto con sé e gli altri era sbagliato. Il lavorare sulla malattia le permise di scoprire una modalità nuova di relazionarsi.

Ultimo aggiornamento: 12/03/24