2 - Ammalarsi di anoressia e di bulimia è una scelta della singola persona o “se l'è cercata”?

pesso capita di sentire l’idea che “chi si ammala di DCA se lo sceglie”, perché “non vuole mangiare” o perché “vuole mangiare troppo” e non s’impegna a limitarsi. La causa starebbe nella debolezza della loro volontà. Messaggi di questo genere presuppongono che la persona non impieghi la propria volontà per salvaguardare o mantenere la propria salute, ma che deliberatamente decida di ammalarsi scegliendo proprio quella malattia. Se però un’altra persona si ammala di cardiopatia, o di diabete,  o di altre malattie organiche, la volontà di quell’individuo non viene tirata in causa, si parla di destino, o di ereditarietà, o di sfortuna.

In realtà se dovessimo pensare che sia un problema di volontà, dovremmo constatare che siamo in presenza di due volontà: una che non vuole avere la malattia e una che non riesce a liberarsene e che è obbligata ad avere comportamenti alimentari scorretti.

Affermazioni simili a quelle riportate più sopra sulla volontà di chi ha un DCA possano essere vissute, dalle dirette interessate/i, come estremamente offensive e lederne la sensibilità in profondità. In questo modo non si sentono né viste nelle loro sofferenze com’è accaduto spesso nella loro storia personale, né riconosciute nella loro diversità.

Gli individui con DCA riportano vissuti relativi al sentirsi come esseri trasparenti, fantasmi, di sentirsi spalmati sui muri (come diceva una paziente), cioè parte della tappezzeria e non parte del gruppo o del mondo. Sono generalmente lesi nella loro interiorità e difficilmente riescono a sostenere o valorizzare se stessi. Molto spesso non sanno nemmeno chi sono e di cosa hanno bisogno per cui quando gli altri gli fanno capire che è colpa loro se si sono ammalate/i ricevono solo la conferma di essere veramente sbagliate/i.

Emma, era una ragazza di 20 anni, con una Anoressia, primogenita di due figlie, la sorella aveva 2 anni di meno. Durante il primo anno di università Emma si era bloccata e dopo i primi due esami non riuscì più a farne. Negli anni mentre la sorella, anche lei iscritta ad un’altra facoltà,  riusciva a dare gli esami e fare viaggi, lei si chiudeva in casa, si isolava e iniziava a perdere peso. Inizialmente Emma disse che aveva spesso il mal di stomaco e che era per questo motivo che doveva controllare la qualità del cibo che ingeriva. Perse molto peso ed arrivò a 14,5 di BMI, quando i genitori la portarono al servizio. Per alcuni anni le sedute di terapia sembravano servire a poco perché Emma sosteneva che sta bene, che non aveva problemi, che tutto andava per il meglio, salvo il fatto che il suo peso migliorava per pochi mesi e poi ritornava quello di partenza. Alla domanda come mai secondo lei le succedeva questo, la ragazza non sapeva rispondere perché per lei “stava andando tutto bene”. La madre lamentava che Emma non faceva un passo senza di lei, non aveva amiche e non riusciva a prendere alcuna decisione se prima non ne parlava con lei. Il padre diceva che la figlia aveva smesso di guidare e confermava la totale dipendenza dalla madre. Quando Emma si confrontava con i genitori, non si rendeva conto di essere dipendente dalla madre, ma diceva che per lei era un piacere stare con quest’ultima. Quando le chiedevo perché non aveva nessuna amica lei rispondeva che conosceva qualche ragazza, ma che erano timide come lei e quindi era difficile fare qualcosa insieme. Solo dopo quattro anni la sorella raccontò che i genitori avevano avuto in passato un grosso problema di lavoro. Un socio aveva rischiato di far fallire la società perchè aveva sottratto dei soldi, emerse che all’interno della famiglia vigeva un codice di estremo riserbo, in seguito all’episodio non si poteva più dare confidenza a nessuno. Il socio disonesto era il migliore amico del padre ed il tradimento era stato un trauma familiare. Per Emma da quel momento sembrò difficile conoscere ed esprimere i suoi bisogni e pensieri, erano importanti solo quelli familiari. 

Queste persone hanno bisogno di avere a fianco individui attenti, sensibili, che le incoraggino a prendere consapevolezza ed esprimere le loro idee, i loro sentimenti, a seguire le loro esigenze e bisogni, che le accompagnino e le sostengano nella conoscenza di sé. Solo in questo modo la diversità individuale può essere esperita come risorsa, come valore per sé e per gli altri, mentre più abitualmente è vissuta come handicap.

Chi soffre di DCA riporta una bassa autostima, incapacità di dare espressione alle proprie emozioni, inconsapevolezza dei propri bisogni e necessità, tende a rincorrere la soddisfazione dei desideri degli altri, in modo più o meno  consapevole, come se fosse giusto adeguarsi solo agli altri e normale dimenticarsi di se stessi anche quando sono persone intelligenti e curiose.

Davide 19 anni,  aveva sviluppato una Alimentazione Incontrollata ormai da alcuni anni, figlio unico di genitori separati. Aveva interrotto il suo rapporto affettivo col padre perché lui lo voleva magro.  Davide rivendicava la sua dipendenza da cibo come desiderava essere amato per quello che era: una persona intelligente e creativa. Raccontava che, di sabato sera, quando raramente accettava di ritrovarsi con gli amici, circa una trentina di ragazzi, c’era chi beveva in modo eccessivo, chi faceva uso di droghe, lui invece era l’unico a mangiarsi otto hot dogs uno dopo l’altro. Si diceva che, con il suo comportamento, in fondo lui non metteva a rischio la vita di nessuno, mentre i suoi amici, per il loro abuso, avrebbero potuto causare incidenti stradali. Così legittimava il suo non prendersi cura di sé e il suo negare quanto dolore gli desse sapere che suo padre lo rifiutava.

 

Irene, era una ragazza di 31 anni, bulimica dall’età di 20, aveva avuto in precedenza problemi di tossicodipendenza dall’età di 15 anni dalla quale ne era uscita. Durante il trattamento ambulatoriale raccontò quanto le fosse stato facile studiare ed ottenere ottimi voti fin da bambina. In qualsiasi cosa la madre le chiedesse di impegnarsi lei era bravissima: nuoto, canto, ballo, imparare l’inglese, studiare, etc. Così nella sua vita aveva imparato che non poteva deluderla e si era adattata a fare non tanto quello che la faceva star bene, ma quello che secondo lei gli altri si aspettavano da lei. I comportamenti autolesivi: droghe, cibo, abbruttire il proprio corpo, servivano per allontanarsi dal contatto con se stessa. Viveva un’esistenza a lato, parallela, il drammatico costo erano le frequenti abbuffate giornaliere, l’autoisolamento era stato inevitabile. Era in grado di mantenere una relazione amorosa di convivenza da 10 anni, ma nutriva il dubbio di non essere capace di provare veri sentimenti. Accettava la vicinanza delle amiche solo per Natale, non per poca sintonia ma perché si sentiva diversa ed inadeguata, un’amica da perdere insomma e si chiedeva come mai loro non si fossero ancora allontanate.

Ultimo aggiornamento: 12/03/24