3 - Qual'è il ruolo della famiglia?

La famiglia è molto importante per tutti gli individui, ma deve essere una vera risorsa e non diventare un ostacolo.

Accade a volte che le famiglie delle persone con DCA, quando si rendono conto della malattia del figlio/a, si “ammalino” di conseguenza. In questi casi diventano loro stessi ossessionati dal cibo e dai comportamenti alimentari scorretti del loro congiunto.  Sono ossessionati da ciò che accade durante i pasti: osservano se il proprio figlio/a consuma il cibo voracemente e va in bagno subito dopo, oppure se spezzetta ciò che è nel piatto senza mangiarlo.

Rimanere incatenati nell’ossessione del comportamento alimentare della propria figlia/o non è d’aiuto né per se stessi né per chi soffre di DCA, ma diventa inevitabile perché è un modo per contenere l’angoscia derivante dall’impotenza sperimentata.

Quello che, invece, aiuta chi soffre di DCA è avere accanto a sè familiari che sono in grado di mettersi empaticamente nei loro panni, capire o intuire cosa possano sentire, vivere in quel periodo della loro vita e aiutarli ad affrontare le difficoltà.

E’ importante accettare che la propria figlia/o sia debole e in difficoltà.

Una delle prime domande che pongono i genitori è “Di chi è la COLPA?”, “E’ COLPA MIA perché in passato ho fatto…ho detto…, avrei dovuto dire…o fare…?”

I genitori s’interrogano su come hanno educato i figli, sugli eventi vissuti negli anni e sulle scelte operate ovviamente pensando al bene dei figli.

Generalmente interrogarsi e mettersi in discussione è un buon esercizio per verificare se si debbano attuare dei cambiamenti nei propri comportamenti o rimanere fermi sulle proprie convinzioni, ma non è detto che aiuti a capire ciò che accade.

Del resto ricercare il COLPEVOLE può mettere la coscienza a posto, si pensa di averlo trovato, si emette un giudizio, ma così facendo si chiude il pensiero e la comunicazione.

Pertanto, non è una buona cosa dare la colpa a noi o a chi ha la malattia o cercare il colpevole, perché  la soluzione non è così semplice e facile.

Si dice che queste malattie abbiano origini bio-psico-sociali, quindi devono associarsi più variabili complesse per dare il via a comportamenti patologici.

Ad esempio nel caso di Elena, una ragazza di 13 anni, figlia unica di una giovane coppia, fu difficile prendere consapevolezza di che cosa l’avesse portata a sviluppare una Anoressia Nervosa. L’anno precedente allo sviluppo del DCA il padre si ammalò di cancro all’intestino fu operato, ma in seguito gli trovarono una metastasi al fegato. In poco tempo fu rioperato ed ebbe un trapianto di fegato, intervento che si rivelò risolutivo. In quell’anno suo padre dimagrì parecchi chili, non le fu riferito in modo completo della malattia, ma di certo Elena capì che il suo stato fisico era grave.  Durante questo periodo di operazioni e terapie del padre, che durò circa un anno, Elena ed il fratello minore furono affidati alla nonna materna. I due ragazzini persero quindi il rapporto preferenziale con entrambi i genitori, la madre si occupò molto del marito, lo seguì nei diversi interventi e trattamenti svolti lontano dalla città in cui la famiglia viveva. Inoltre, probabilmente Elena non era pronta per staccarsi dalla madre con la quale aveva un legame di forte complicità.  L’anno seguente, a quello della malattia del padre, Elena cominciò a conservare ogni tipo di scontrino, biglietto dell’autobus piuttosto che del treno, fazzoletti di carta anche già usati ed accumularli nella sua stanza. Dopo alcuni mesi, il padre cominciò a pensare che l’ossessione della figlia stesse superando il limite e dopo altri mesi l’ossessione del controllo iniziò anche nei confronti del cibo. Chi o cosa ha favorito lo sviluppo dell’Anoressia in Elena? Difficile dirlo. I genitori sono sempre stati amorevoli nei suoi confronti, vero è che nell’anno della malattia del padre è probabile che il clima di preoccupazione ed il timore che morisse devono essere stati davvero forti. La separazione dagli oggetti o l’idea di poter perdere le persone care, dai quali non poteva separarsi, provocavano in Elena una tale angoscia da spingerla ad esercitare un controllo assoluto su tutto. Doveva essere lei ad avere l’ultima parola su eventuali separazioni di cose o persone. Anche rispetto all’alimentazione, ogni nutriente che entrava nel suo corpo doveva essere studiato e controllato. Elena, in un primo momento, ebbe bisogno di un ricovero in un reparto di Pediatria, a causa dell’urgenza organica raggiunta. Dopo il ricovero, Elena è ritornata al trattamento ambulatoriale specialistico uscendo definitivamente dalla malattia.

Chi ha un DCA in genere da bambina/o è la figlia/o che molti genitori vorrebbero avere perché molto brave/i, diligenti, obbedienti, adattabili, tanto che non sembra quasi di averle/i vicino. A scuola generalmente sono bambine/i-ragazze/i studiose/i, che non danno problemi, salvo poi a diventare aggressive/i, scontrose/i, ribelli in fase preadolescenziale o adolescenziale. In questa fase di vita, i genitori faticano a riconoscerle/i, la comunicazione è interrotta e i familiari sono sorpresi della situazione conflittuale che si è venuta a creare, increduli che quella/o sia la loro amata figlia/o.

Se la comunicazione con i figli s’interrompe, nel momento in cui ci si occupa di loro, è difficile capire se si è vissuti come invasori o amorevoli sostenitori. Infatti, i genitori generalmente non pensano di essere vissuti come predatori dai figli, come invasori dello spazio psichico, ma pensano solo che stanno offrendo aiuto alla persona a loro più cara.

Se una figlia di diciassette anni attraversa un periodo in cui è depressa, non si occupa tanto degli spazi in cui vive, ad esempio può lasciare i vestiti in disordine nella propria stanza, lasciare sparsi sul pavimento i propri effetti personali, dimenticare in giro il proprio diario segreto. In questi casi la madre potrebbe sentirsi quasi costretta ad occuparsi di lei mettendo tutto in ordine, anziché chiederle: “come stai?”, “cosa ti sta accadendo?”

In questi momenti le figlie/i hanno  bisogno di aiuto nel riappropriarsi della cura di sé, della propria autonomia ed aumentare l’autostima, perché sintomo di quel benessere perduto.

Il confine tra invadenza e guida/supporto è molto sottile. Dovrebbe essere fondamentale definire e concordare qual è il limite, come fare a rispettarlo da entrambi le parti e non darlo per scontato.

Quando nasce un bambina/o dovremmo ricordarci che nasce una persona diversa da noi e che non corrisponde mai ai nostri desideri, sono altri individui che possono arricchire la famiglia se riconosciuti nella loro diversità e  se valorizzati.

E’ la scoperta dell’altro che ci deve guidare nel viaggio della nostra vita.

Simona, ragazza i 22 anni, Anoressica da tre anni quando è arrivata al nostro servizio. Simona era la primogenita di due figlie femmine, la sorella aveva 2 anni meno di lei con un carattere ben definito, molto capace di dimostrare le sue esigenze e i suoi  pensieri spesso diversi da quelli del padre, il quale tendeva ad imporre la sua volontà in casa. Simona era sempre stata la “figlia modello”, brava a scuola, a differenza dalla sorella, ubbidiente, brava ascoltatrice dei problemi altrui, tranquilla e quieta, sempre accondiscendente nei confronti delle richieste dei genitori. A 19 anni dopo l’esame di maturità doveva decidere che strada intraprendere ed optò per il percorso universitario. I genitori, che avevano un’attività in proprio, da una parte furono contenti della sua scelta, ma dall’altra le chiedevano in continuazione di aiutarli nell’attività di famiglia, soprattutto il padre che l’aveva ereditata dai suoi genitori. Simona non riusciva a far fronte alle continue richieste, acconsentiva a svolgere i turni di lavoro in azienda, trascurando così lo studio. Iniziarono i comportamenti ossessivi sul cibo, la sua alimentazione divenne a mano a mano sempre più restrittiva e cominciarono le lunghe passeggiate. Gli amici vennero al servizio, in cui lavoro, per segnalare le condizioni di Simona dopo la terza estate in cui aveva diminuito l’alimentazione. Durante questi mesi aveva perso ulteriore peso ed era arrivata a 13 di BMI. Gli amici non sapevano del peso raggiunto, ma appena la videro all’università si resero conto che si era come “trasformata”. Io attivai il Medico di Medicina Generale che subito convocò la mamma e Simona e convinse la ragazza a farsi ricoverare presso una Medicina dell’Ospedale della città. Qui iniziò il suo percorso terapeutico ed il counseling della famiglia, ovvero uno spazio di supporto dedicato ai genitori. Dopo il ricovero in urgenza organica fu trasferita in una residenza di riabilitazione intensiva. Simona continuava a sostenere il ruolo di brava figlia come di brava paziente, durante tutto il percorso durato un anno, arrivò a 20 di BMI (BMI normopeso da 18,5 a 24,9) con la felicità di tutti i familiari. Uscita dalla residenza, dopo l’ultima fase di Day Hospital, Simona capì che non riusciva più a vivere con i genitori e quindi maturò la necessità di vivere altrove.  Si trasferì in un’altra città non troppo lontana da quella dei genitori, ma che le piaceva molto. Dopo il trasloco però iniziò a riperdere peso. Nel frattempo in terapia familiare, affrontammo alcuni dei conflitti in particolare quelli vissuti relativamente nei confronti del padre e della sorella. Simona aveva una relazione affettiva con un ragazzo da cinque anni ed il trasferimento urbano dette una scossa al loro rapporto in negativo, il ragazzo era arrabbiato e non capiva la sua esigenza di allontanamento. Insieme decisero di chiedere delle sedute di coppia per essere aiutati a ritornare la sintonia di prima. Nei mesi invernali Simona perse molto peso arrivando a 15 di BMI. Questa regressione fu importante perché l’aiutò a capire che doveva prendere un’altra direzione. Si accorse che si sentiva troppo responsabile sia nello studio che rispetto al padre ed in competizione con la sorella. Con il ragazzo iniziarono momenti di confronto talvolta accesi sui loro bisogni e sulla necessità di entrambi di sentirsi liberi di decidere se stare insieme o no. Durante una seduta riportò di sentirsi come quando si sale sul gioco del pinko panko, o anche chiamato dindolon, immersa in un alternarsi d’idee di idealizzazione verso quello che avrebbe voluto fare nella vita, nelle relazioni, che diventavano un dictat assoluto da realizzare e d’idee di svalutazione di sé, se poi non riusciva a stare al passo con i suoi propositi e programmi. A questo punto Simona, dopo aver lavorato in psicoterapia sui suoi pensieri torturanti, sulle aspettative e sul perdono, cominciò a comportarsi più liberamente rispetto al cibo e a volte riusciva a consumare un pasto “quasi normale”, così  lentamente riprese peso.

 

Un’altra persona che ricordo è Andrea, un uomo di 50 anni che aveva sviluppato un’Alimentazione Incontrollata, poco tempo prima di arrivare al servizio. Aveva capito di essere omosessuale e provava forte vergogna per questo suo modo d’essere. Non voleva dirlo alla sorella che abitava al piano di sopra, in una villetta che i genitori si erano costruiti con tanto sudore e che avevano lasciato in eredità ai due figli. Andrea era tormentato dall’idea che suo cognato, marito della sorella, lo avrebbe deriso se lo avesse saputo per via di certe frasi che ogni tanto diceva nelle quali denigrava gli omosessuali. L’input  della cultura familiare era quello che bisognava essere “tutti d’un pezzo” e l’omosessualità mal si inseriva in tale insegnamento. Viveva la sua scelta identitaria e sessuale da una parte come una necessità, cioè non avrebbe potuto far altro e per questo si era accompagnato con un altro uomo; e dall’altra sperava un giorno di scoprire di essere diverso, forse come quel figlio che i genitori, secondo lui, avrebbero desiderato. Il dilemma, che lo torturava, era se rivelare il “vero se stesso” a familiari, amici, colleghi o “recitare una parte”, che non sentiva sua,  e pagare con le abbuffate.

Ultimo aggiornamento: 12/03/24