8 - Esiste un decalogo del buon genitore?

La risposta è piuttosto ovvia ed è no.

Il decalogo del buon genitore non esiste e non esisterà mai perché non si può standardizzare un comportamento educativo perchè non esiste persona standard.

Ci sono delle regole di buon senso, dei consigli, dei quesiti che i genitori devono porsi e parlarne con altri genitori, parenti, amici ed educatori per trovare la strada migliore per mettersi in contatto col proprio figlio.

Un problema che i genitori devono tenere presente è che ognuno deve trovare un equilibrio tra lo sperare che la propria figlia/o faccia quello che lui/lei vorrebbe, soddisfare le aspettative genitoriali, e lasciarla/o libera/o di esprimersi  per quello che è o che desidera intraprendere, credendo in lei/lui.

In pratica ricordarsi che mettiamo al mondo altre persone da noi, che la diversità è una risorsa e non un problema.

Un’altra situazione che potrebbe rivelarsi difficile è quella in cui i genitori sono in crisi matrimoniale, non ne parlano tra loro, ma chiedono inconsciamente alla figlia/o di fare da ponte o di allearsi con uno di loro. E’ il caso in cui genitori non si rendono conto che i figli potrebbero rimanere stritolati da questa morsa mortale. Non per questo i figli si ammalano, ma certamente questa situazione conflittuale coniugale non facilita la persona  con DCA ad occuparsi dei suoi problemi.

Solange era una ragazza di 15 anni, che aveva sviluppato un’ Anoressia Nervosa con Condotte di Eliminazione, un anno prima di arrivare al servizio. La ragazza, figlia unica, assisteva da qualche tempo alle litigate tra i genitori, durante le quali spesso la madre ripeteva al marito che loro erano troppo diversi. Solange non capiva perché i genitori stessero ancora insieme, era arrabbiata con la madre perché, a suo parere, non riusciva a prendere una decisione rispetto alla separazione. Contemporaneamente Solange aveva un legame molto stretto col padre che viveva come vittima ed estremamente debole, da proteggere. Anche nei confronti del padre nutriva, però, del risentimento perché era insistente nello studio, le chiedeva di prendere sempre bei voti, senza considerare quanto fosse difficile per lei concentrarsi con quel dolore nel cuore. La sofferenza veniva dal fatto che temeva che la famiglia si stesse sfaldando e che lei perdesse i riferimenti stabili genitoriali in un momento così delicato in cui ne aveva più bisogno. Inoltre, aveva paura di non piacere alla madre che viveva come esigente e giudicante. Sentiva di assomigliare al padre sia fisicamente sia in diversi aspetti del carattere e temeva che la madre provasse per lei gli stessi sentimenti che sentiva per lui e che quindi alla fine li avrebbe abbandonati entrambi. La tensione era tale che le provocava buchi nello stomaco da colmare voracemente. La rabbia inaccettabile invece la portava a vomitare.

Al centro DCA afferiscono delle ragazze che hanno subito molestie o violenze e che subito dopo hanno sviluppato un DCA, situazione non scontata, ma piuttosto diffusa. In questo caso alcune di loro hanno pensato di aver fatto qualcosa per meritarsi il trauma, altre hanno pensato di dover proteggere i genitori dal trauma stesso tacendolo, altre ancora non si sono sentite protette dalle madri o dai padri e hanno iniziato ad avere un comportamento particolarmente aggressivo nei loro confronti, mentre altre hanno cominciato a manifestare comportamenti autolesivi.

Nel caso dei traumi da molestie o violenze, le persone tendono a vivere il proprio corpo non più come loro, ma come di qualcun altro, corpo violato difficile da considerare territorio personale. Il corpo diventa uno spazio da attaccare perché non è stato sufficientemente protetto né protettivo, anzi esposto all’incidente.

Il percorso verso la guarigione può rivelarsi maggiormente lungo, perché la persona deve riappropriarsi anche del corpo violato, oltre a comprendere i propri bisogni e legittimarsi nel seguire le esigenze d’autoaffermazione.

Come servizio quando intercettiamo persone che hanno subito traumi proponiamo percorsi seguendo la tecnica EMDR (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), una delle tecniche riconosciute come più efficaci.

Elisa era una ragazza adottata, che aveva subito molestie dal padre naturale e per questo motivo era stata tolta alla famiglia d’origine insieme ai suoi fratelli, che erano stati adottati da altre famiglie. I suoi genitori adottivi l’avevano crescita cercando di educarla al meglio. Elisa aveva la tendenza ad adattarsi alle persone alle quali era legata perché viveva in continua tensione per la paura di non essere amata. Un giorno all’età di 15 anni, durante una vacanza con i suoi genitori e un amico del padre, subì una violenza sessuale da parte dell’amico di famiglia. Elisa pensò di aver fatto qualcosa per esserselo meritato. Non riuscì a dirlo ai genitori, ma in seguito sviluppò una Bulimia Nervosa e comportamenti autolesivi. I genitori non riuscivano a capire cosa avesse scatenato le angosce della figlia, che, ai loro occhi, si manifestavano con attacchi di panico e tagli sugli avambracci.  Solo dopo un anno dal fatto, quando Elisa iniziò una relazione amorosa con un ragazzo molto sensibile, riuscì a raccontargli della violenza e del Disturbo Alimentare. Lui insistette molto sul fatto che era giusto che i genitori sapessero ciò che le era accaduto e l’aiutò a confidarsi con loro. Questo fu l’inizio, che la portò ad accettare le cure terapeutiche al fine di sconfiggere la patologia DCA e a superare la violenza sessuale. I genitori si sentirono responsabili del fatto accadutole, come lei aveva pensato per se stessa, e le furono vicini durante tutto il percorso.

In un approccio multidisciplinare, chi si occupa della parte somatica interviene anche sul comportamento alimentare. In genere viene consigliato al paziente il metodo del diario alimentare, dove le persone con DCA annotano come si compongono i pasti, sia nel senso della tipologia degli alimenti ingeriti, sia della quantità e riportano anche i sentimenti vissuti. Il diario agisce, nel mentre si scrive, come ottimo strumento per  riprendere o favorire la corretta modalità alimentare, un atteggiamento autocritico che dovrebbe favorire il raggiungimento della consapevolezza dei propri bisogni ed esigenze. Questo tipo di lavoro solleva i genitori dall’impegno alimentare presunto e ridona loro la funzione genitoriale che li aiuta a preoccuparsi del benessere del proprio figlia/o in senso affettivo.

Solo quando l’équipe nutrizionale ritiene opportuno coinvolgere i familiari nei pasti, essa propone loro la funzione di preparazione e di osservazione del momento.

E’ bene che i genitori non svolgano nemmeno la funzione di psicologi o di psichiatri, ma esercitare il loro ascolto attento e premuroso nel cercare di capire che periodo di vita stia attraversando la loro figlia/o, che emozioni stia vivendo, che bisogni non riesce ad esprimere, fino a domandarsi cosa stia accadendo all’interno del loro nucleo familiare e come loro possano aiutare la propria figlia come genitori.

Da alcuni anni utilizziamo il metodo Nuovo Modello Psicoeducativo per genitori Maudlsey, per aiutare i familiari a riflettere sulle dinamiche che più spontaneamente essi mettono in campo quando si è in relazione con una persona che soffre di DCA.

Questo modello utilizza le metafore animali per descrivere alcune dinamiche che impediscono il progredire verso la salute ma che sono inevitabili. Le metafore che descrivono i comportamenti più comuni sono:

  • Rinoceronte (atteggiamento di “sfondamento”), consiste nel tentare di presentare, alla persona con DCA, come potrebbe correggere i propri errori comportamentali e mostrargli come dovrebbe fare. Il rinoceronte, per convincere il familiare della veridicità degli argomenti, utilizza ragionamenti logici. Il DCA non rispondendo a questa logica, persiste portando il familiare a sentirsi sconfitto, frustrato, svuotato e arrabbiato. D’altraparte chi soffre di DCA potrebbe sentirsi respinto, non amato, non capito o disprezzato.
  • Struzzo (atteggiamento della “testa sotto la sabbia”) La si identifica in un familiare che cerca di ignorare il problema, in questo caso il familiare rischia di colludere con il disturbo alimentare attraverso il proprio comportamento. I membri della famiglia trovano difficile fronteggiare tutti i problemi e le emozioni che si presentano a casa e provano a evitarli stando lontani il più possibile da chi ha il disturbo alimentare (es. dedicano molto tempo al lavoro, ad un hobby o ad altre attività fuori casa). Gli “Struzzi” si trovano a dover convivere con alti livelli di sensi di colpa. La persona con DCA può sperimentare un vissuto di “anonimia”, ovvero si sente ignorato e non importante e riceve la conferma che la malattia va ignorata.
  • Fox terrier (atteggiamento “del cane che morde i garretti”) La dinamica “Fox Terrier” si esplica nel mostrare a chi soffre di DCA quello che dovrebbe fare e che non fa in modo insistente e persistente, come se la persona stesse “abbaiando contro un estraneo”. Tale dinamica porta chi soffre di DCA a non ascoltare e chiudere la comunicazione perché non si sente compreso nella sua difficoltà, mentre il “Fox Terrier” si sente impotente e affaticato nel suo lavoro costante e direttivo.
  • Medusa (atteggiamento “informe”) La metafora della medusa descrive l’essere in uno stato emozionale aperto con tutti i sentimenti stando in superficie, per esempio, sciogliersi in lacrime e sofferenza, o diventare congelati per la paura, agitati dal dubbio, incerti e costantemente alla ricerca del controllo sul disturbo alimentare. Portano manifestazioni di emozioni troppo acute verso il comportamento causato dalla malattia, che si aggiungono alle difficoltà del malato. In alternativa possono sfociare nella rabbia. La “medusa” può essere spazzata via dalle correnti (emozioni). Nella persona con DCA, tale atteggiamento provoca una forte incertezza emotiva, senso di colpa e sensi di inadeguatezza e vergogna.
  • Canguro (atteggiamento “iperprotettivo”) Il “Canguro” nel tentativo di aiutare, di proteggere chi soffre di DCA, lo accudisce come in un marsupio, dà attenzioni per tenere a bada i problemi e le esperienze conseguenti allo stare a fianco di un DCA. I “Canguri” condividono standard elevati con chi soffre di DCA (es. aspettative elevate circa il loro ruolo genitoriale, perfezionismo). Anziché guidare il figlio/a nelle scelte e nei percorsi possibili di direzione, il familiare si sostiuscie alla persona con DCA. Questa risposta iperprotettiva toglie la possibilità di sviluppare ed esplorare il mondo. Alcuni familiari possono cercare di diventare “Supereroi” e sacrificare sé stessi per aiutare il malato (guidare per ore e ore per andare a comprare quello yogurt di quella marca che vuol mangiare il proprio congiunto). Nella persona con DCA, questo atteggiamento suscita poca autostima perché non è in grado di fare le giuste scelte.

Il modelle prevede inoltre metafore, quindi comportamenti e risposte che i familiari possono utilizzare per fronteggiare al meglio la malattia; queste sono ritenute come metafore positive da perseguire.

  • San Bernardo (atteggiamento di “sintonia emotiva o empatia”)  Bisogna ascoltarsi e immedesimarsi nel dolore e nel grido d’aiuto che lancia chi soffre di DCA. Se ci facciamo coinvolgere dalle urla e dalla rabbia ci potrebbe essere una “valanga”. Il “San Bernardo” procura calore e nutrimento, finché non sopravviene il cambiamento. Esso è affidabile, fedele e leale per natura, anche quando è coinvolto in una situazione pericolosa. Questa metafora esprime la capacità del familiare di essere in sintonia con le sofferenze di chi ha un DCA senza proporre alcuna soluzione. Non prova compassione ma empatia.  https://www.youtube.com/watch?v=nSVyLBsQO0A
  • Delfino (atteggiamento “dello stare a fianco durante il percorso”) La sua dinamica ricorda l’aiuto dato alla persona amata verso la sicurezza della guarigione, ciò significa avere un giusto equilibrio tra calore e guida, superando il DCA per condurre la persona attraverso un passaggio sicuro, oppure per spingerlo pian piano e guidarlo da dietro. I “Delfini” affiancano la persona che lotta credendo nella sua capacità di nuotare fuori dalla situazione ed alcune volte ascolta e resta indietro, per lasciare andare avanti pur stando vicino. In alcuni casi può diventare più direttivo quando si delineano buone scelte di vita, in questo caso il “Delfino” spingerà delicatamente, starà vicino restando accanto finché la persona non raggiunge la sicurezza. 

Ultimo aggiornamento: 12/03/24