10 - Quale influenza hanno su di noi i modelli proposti dai media?

Non si intende demonizzare né Tv né pubblicità, ma porre alcune riflessioni in merito ai modelli identitari più diffusi in quest’epoca storica e considerare quali influenze possono avere su di noi in modo da sviluppare una maggiore capacità critica.

E’ l’epoca dell’eccesso, del troppo, dell’abbondanza. Abbiamo desiderato di raggiungere il benessere, il pieno di tanto, la pronta e piena possibilità di ottenere il soddisfacimento d’ogni nostro desiderio.

E’ così che ci sembra di far parte di un mondo in cui tutto sembra possibile e niente impossibile, come citano alcune pubblicità.

Non c’è quasi più il tempo di chiedersi se ciò che stiamo facendo abbia senso, o convenga economicamente, se porti reali vantaggi, o se produca maggiore benessere. L’eccesso si autoalimenta, la velocità incalza e così ne rimaniamo stritolati.

Negli anni Settanta una passeggiata in città esponeva le persone ad una media giornaliera di messaggi pubblicitari oscillante fra i 500 e i 2.000.  Oggi nella giungla urbana delle promozioni, gli appetiti pubblicitari sono cresciuti al punto di portare la soglia massima a 5.000  annunci, ma con una media di 3.000, secondo la stima nel 2009 del presidente di Procter&Gamble Sami Kahale che come ha riassunto bene il “Business Week”: I consumatori sono praticamente sepolti vivi dalla pubblicità (Triani, 2012).

“Nessuno guarda la Tv per vedere la pubblicità” osservava maliziosamente negli anni Novanta il guru londinese della pubblicità Timothy Joyce. Il problema però è che oggi è diventato impossibile guardare la tv senza vedere la pubblicità(Triani, 2012).

L’omologazione del cibo e dei consumatori passa fondamentalmente attraverso la pubblicità. Pensiamo ad alcuni gesti, espressioni o modi di significare apprezzamento per ciò che si sta mangiando: se li censiamo e li isoliamo, vediamo come a dispetto dei tanti prodotti e marche che li utilizzano essi si riducono a poche tipologie. Insomma lo stereotipo s’impone e trionfa. Ed è tutta una corsa a …rubarsi i biscotti e le merendine. Ma anche a costruirsi identità fittizie, in accordo con gli ideali e le mode del momento, che per quanto continuamente cangianti hanno poche ma potenti costanti (Triani, 2012).  

Ci proponiamo, quindi, di esplorare come e quanto i modelli identitari proposti nei messaggi pubblicitari veicolati dai media, influenzino la costruzione dell’identità di genere, in particolare di preadolescenti e adolescenti, che peso abbiano rispetto al rapporto con il proprio corpo e al consumo di determinati cibi.

Gli adulti possono incontrare difficoltà nella riorganizzazione del proprio Sé, soprattutto quando si trovano a dover affrontare eventi critici o fasi di passaggio della vita come ad esempio: malattie gravi che implicano il riadattamento ad un cambiamento corporeo (in seguito ad esempio ad un cancro), a situazioni che hanno portato a mutilazioni psichiche (separazioni), a situazioni particolari come un pensionamento scioccante o la depressione post-parto. Durante questi momenti di vita il Sé dell’individuo è più fragile e gli input provenienti dalle persone più vicine a noi, o quelli provenienti dal contesto socio-culturale diventano più importanti. Sono situazioni nelle quali il Sé spinge a ricercare con urgenza modelli identitari sui quali poter fare riferimento.  

Il bisogno e la ricerca di libertà di pensiero, di sentimento, nasce dalla necessità di poter scegliere, dal bisogno di poter sostenere quelle idee nelle quali ognuno si riconosce, che sono un modo attraverso il quale l’individuo si conosce, si fa conoscere, si autoafferma e si dichiara al mondo.

L’individuo deve quindi riuscire ad intergare parti di sé conosciute con parti di sé appena costruite attraverso le esperienze in libertà.

Identità e Sé costituiscono le due facce della stessa medaglia, lo stesso nucleo di noi; entrambi sono collegati alle relazioni con gli altri e alle esperienze affettive e di vita, alla necessità di essere apprezzati per quello che si è e contemporaneamente rinnovarsi. Se non ci sperimentiamo in nuove conoscenze, in riflessioni, in nuove esperienze perdiamo la libertà di scegliere.

Ciò accade anche nel campo alimentare. Il cibo è collegato all’economia, all’ambiente, al territorio e al sapere, perciò altresì in relazione con la nostra cultura identitaria. Alimentarsi non è solo nutrire il corpo ma anche la mente. Quando introduciamo uno o più nutrienti stiamo mettendo dentro di noi affetti, cultura, gusto, economia, ambiente, oltre che stimolare il nostro piacere o dispiacere.

Il gesto quotidiano del comprare un determinato cibo e mangiarlo, non è un atto neutrale, influisce sul nostro modo di relazionarci col mondo e con le persone. Un’azione apparentemente banale e quotidiana come quella di mangiare, ha un’ influenza profonda sulla nostra persona: da qui ognuno di noi può operare delle riflessioni su di sé e sui propri comportamenti.

Nei disturbi del comportamento alimentare (DCA) è come se la persona si fosse fermata alla fase in cui la sua immagine dipende esclusivamente dall’immagine riflessa che le rimandano i familiari o le persona care, quindi si trova in una sorta di dipendenza continua. Un vincolo che mal s’integra con la necessità di avere anche un’immagine di sé diversa da quella che gli altri hanno di lei. Qui l’integrazione non avviene perché manca una parte, o meglio la persona non dà peso alla propria percezione di sé. L’unica immagine di sé importante è quella che le rispecchiano gli altri, un’immagine di sé ingannevole perché non completa, ma a metà.

La persona non riesce ad avere un rapporto diretto con il proprio Sé e contemporaneamente con l’Altro, come se non fosse in grado di sviluppare un’opinione di sé e allo stesso tempo confrontarsi con l’immagine di sé che gli altri le rispecchiano (Gibin, 2009).

Trattiamo questo fenomeno perché viviamo in una società in cui sembra più importante ciò che gli Altri rispecchiano di noi, cioè un’immagine narcisistica nella quale siamo sempre ammirati, più che valorizzare la capacità di sintesi tra consapevolezza di Sé e interazione con l’Altro. L’attenzione è più rivolta verso quello che arriva dall’esterno e all’esteriorità, più che all’integrazione tra quest’ultima e l’interiorità.

Questo comportamento scisso della persona è ciò che fonda la dinamica culturale attuale, che non è d’aiuto alla persona nel suo percorso di crescita, anzi la vincola a forme di dipendenza patologica sia psichiche che di abuso di sostanze (ad esempio: sostanze, cibo e comportamenti).

Un altro aspetto enfatizzato, dalla cultura odierna, è che tutto deve rimanere immutabile, gli insegnamenti derivati dall’esperienza, come agenti di trasformazione, non possono essere accettati, l’evoluzione nella sua accezione di modificazione non è ammessa, il cambiamento del corpo nel tempo è bandito.

Sembra difficile non cadere nella tentazione di fare ricorso alla manipolazione del proprio corpo attraverso, ad esempio, la chirurgia plastica, cioè non seguire il desiderio di mantenere per sempre le stesse sembianze.

Sottolineamo, che non è necessario dimenticare parti di sé o perderle per diventare individui maturi.

Eric Erikson (1974) sostiene che l’individuo deve mantenere le caratteristiche d’identità flessibile, capace di sintesi nel tempo, coerente e separata dagli altri se vuole conquistare la maturità.

Ciò che colpisce del trend di quest’epoca è la tendenza alla cristallizzazione dei corpi, come delle identità. Anziché aggiungere nuovi Sé, si tende a cristallizzare quelle parti adolescenziali o giovanili che si sono reputate di successo, facendole risultare vincenti rispetto a quelle adulte, come una diapositiva inceppata che si ripropone senza nessuna modifica.

Così come non si deve invecchiare, non si può evolvere come individui, qualunque modificazione è accettata solo se segue determinati codici fisici ed emotivi, che confermano l’immutabilità.

Il fenomeno della cristallizzazione identitaria ha un certo potere seduttivo su chiunque, perchè sostiene l’illusione di potersi mantenere sempre brillanti e vivere quelle parti di Sé del passato alle quali si è tanto affezionati (Gibin, 2012).

Un mondo adulto che non è in grado di metabolizzare i cambiamenti evolutivi naturali, inchioda l’individuo, e a maggior ragione l’adolescente, in un percorso di definizione identitaria incapace di aggiungere e sintetizzare nel Sé il passato con il presente, con uno sguardo rivolto al futuro.

Sembra che le esperienze e le trasformazioni della vita non portino all’utilizzo degli errori per una migliore consapevolezza e conoscenza, all’occuparsi degli altri perché il “io-noi” è parte di un unico universo, all’accettazione delle diversità perché considerate valide risorse, allo sviluppo dell’empatia come strumento per comprendere meglio me attraverso gli altri, ma solo ad un individualismo spietato, all’egocentrismo patologico e perciò all’immaturità (Gibin, 2014).

Sembra che per noi oggi sia difficile rispondere a questi quesiti:

  • Come conciliare il desiderio di una buona prestazione individuale con l’esigenza di avere uno scambio affettivo con altri?
  • Come tenere assieme l’aumento dell’aspettativa di vita con la possibilità di godersela creando un modo nuovo e diverso di vivere gli anni conquistati in armonia con Sé e l’ambiente circostante?
  • Come accettare le diversità individuali invece di aspirare all’omogeneizzazione esasperante di corpi e menti?
  • Come accettare i cambiamenti del tempo senza fermarne i segni in modo indelebile?

Sembra che sia più importante l’efficienza della fredda prestazione come valore estremo che ciò che si ottiene dallo scambio relazionale, portatore di crescita e conoscenza.

Sembra che l’Altro sia percepito più come un pubblico necessario dal quale ci si aspetta solo l’applauso di conferma, più che come persona con la quale si ha una profonda relazione affettiva.

La visione collettiva della televisione dimostra quanto i nostri gusti, orari, abitudini e consumi siano studiati e regolati dai media, in un certo senso “imposti” e quanto sia difficile rendersene conto.

Spesso l’acquisto che pensiamo essere una nostra libera scelta, in realtà è il risultato di una serie di input martellanti ai quali siamo soggetti fin dalla più tenera età.

Al supermercato compriamo quello che è in offerta, tralasciando magari ciò che avevamo deciso di acquistare, così qualcun altro sceglie per noi e guida a nostra insaputa la nostra spesa e le nostre esigenze.

Mentre si sottolinea che ogni individuo deve trovare la propria soluzione alla dieta equilibrata, i consumi vengono studiati e influenzati da forze economico-sociali che sviluppano campagne pubblicitarie rivolte alla collettività o a determinate fasce di popolazione (ad esempio: mamme, casalinghe, single, uomini, donne, bambini).

Ognuno è chiamato ad essere responsabile di se stesso e della propria forma fisica e psichica salvo poi essere succube di messaggi realizzati per la massa.

Ma allora il benessere è un fatto individuale o sociale?

Fino al 1995 nelle isole Figi anoressia e bulimia erano malattie inesistenti e non era stata introdotta nessuna Tv. Una ricerca effettuata tra i ragazzi ha evidenziato che, dopo soli tre anni di trasmissioni televisive a stampo statunitense frammezzate da pubblicità, l’11,9% delle adolescenti soffriva di DCA (Patel, 2009).

Dovremmo riflettere un po’ di più sul potere che certi input mediatici hanno sulla popolazione, soprattutto quella giovanile.

Oggi impera la follia della Fast Life, ossia della velocizzazione dei ritmi di vita, che riguarda sia gli stili di vita che le modalità affettive (Patel, 2009).

Dovremmo contrastare questa follia universale con il recupero del senso che per tutto ci vuole un tempo, con l’importanza dell’ozio, della profondità degli affetti, del piacere del gusto ad un prezzo giusto ed onesto.

Il possesso di determinati oggetti di marca offre l’illusione di essere collocati in uno specifico strato sociale che diventa simbolo di stili di vita e d’identità. In particolare la pubblicità propone attraverso gli spot delle identità precostituite, inquadrate all’interno di un determinato contesto sociale e legate a specifici stati d’animo. Merce, marca e valori sono uniti e si propongono come confort di successo (Codeluppi, 2003).

Questi input creano scenari illusori temporanei che ben soddisfano le nostre debolezze umane. Diventiamo facili prede del marketing e dell’industria se non abbiamo sufficiente consapevolezza dei nostri desideri e non maturiamo un atteggiamento critico rispetto al desiderio di soddisfazione immediata di essi.

Il corpo è spesso utilizzato nelle pubblicità che si riferiscono al cibo, perché l’alimentazione incide direttamente su di esso e quindi chi parla di cibo parla anche di forma corporea e di modelli identitari.

Uno degli input attuali è quello di ricercare la perfezione di sé attraverso acquisto di determinate forme fisiche. Bisogna stravolgere il corpo, modificarlo a tutti i costi, per aderire al modello artefatto proposto che non rispetta le diversità di ognuno, ma che fa sentire di appartenere ad un mondo perfetto.

E’ una perfezione ricercata che dona un’identità sostitutiva alla propria con l’illusione di avere maggiore forza psichica e ottenere successo assicurato, perfezione che propone corpi fatti in serie come identità omogeneizzate.

Quando la persona ha, invece, un aspetto fisico che si allontana dal modello di corpo narcisistico ed ha un Io insicuro, può provare una forte vergogna per le sue sembianze, può sviluppare idee poco benevole verso se stessa e sentirsi spinta a scimmiottare modelli rigidi illusoriamente perfezionisti (come accade in chi soffre di DCA) al fine di guadagnare stima di sé. Allora i comportamenti che rinforzano il falso Sé si’intensificano, si fondono e mistificano l’identità della persona.

Gli stimoli proposti affermano:

  • Scolpisci il tuo corpo (elimina/ modifica le parti di te che non ti piacciono attraverso la chirurgia plastica)!
  • Mistifica la tua personalità (cambia te stesso e rinforza il Falso Sé, non rivelare il tuo Vero Sé perché non è quello giusto)!
  • Rincorri il successo facile che non comporta sforzi!
  • Vivi e consuma velocemente i rapporti umani!

Solo se crediamo in noi stessi saremo in grado di  accettare i nostri limiti e valorizzare le nostre risorse. Perché si verifichi ciò bisogna sentirsi sostenuti da una comunità che rispetta le diversità in un’ottica di equilibrio economico, di salvaguardia dell’ambiente e di valorizzazione, contemporaneamente, di se stessa e dell’individuo.

I media hanno acquistato una funzione educativa, come le altre strutture sociali quali: la famiglia, la scuola. Il problema è, che se i media tendono ad essere autoreferenziali, rischiano di offrire identità stereotipate e di proporre conoscenze che rimangono incontrastate e unici riferimenti.

Così come nel contesto familiare, le norme e i valori vengono appresi attraverso la loro continua enunciazione ed esplicazione, i messaggi educativi che i media trasmettono diventano affidabili per la loro ripetitività e frequenza.

Le identità proposte dai media, in un certo senso, sanano i buchi delle istituzioni sociali e degli individui stessi, offrendo modelli stereotipati di massa a cui tutti possono fare riferimento per colmare il proprio vuoto.

Viviamo in una società in cui si esaltano contemporaneamente l’edonismo (godimento del cibo, consumi raddoppiati a costi minimi) e l’immagine estetica (nel suo intento di controllarne le forme), due input contrastanti per antonomasia.

Si chiede all’individuo di possedere forme corporee ascetiche, mentre nello stesso tempo si consiglia un consumo sfrenato e compulsivo di cibo.

Bisogna aiutare a ragionare con la propria testa chiunque si avvicini ai media, nel caso dei ragazze/i, affiancandoli come adulti capaci di tradurre e metabolizzare i contenuti mediatici e di aiutarli a maturare una coscienza critica di orientamento.

Oggi gli educatori non possono più proporsi come legislatori dei valori e delle norme culturali, ma è necessario che agiscano come interpreti delle molteplicità e delle complessità della realtà proponendo diverse forme di percezione e di conoscenza (Buckingham, 2006).

In questo panorama i servizi sanitari sono soltanto uno dei nodi della complessa rete del welfare sociale. Altri attori contribuiscono allo stato di benessere delle persone: famiglia, rete amicale, scuola, lavoro, casa, media, ambiente, alimentazione, esprimere i propri pensieri e sentimenti.

La collettività diventa educativa quando diventa una comunità responsabile, coerente, sostiene ed accompagna i cittadini nella costruzione delle identità, aiuta le giovani generazioni a realizzare i propri progetti di vita.

Pensiamo che nella società d’oggi un‘attenzione particolare vada data al tema dell’isolamento sociale e ai suoi effetti negativi

E’ necessario riflettere sulle conseguenze dell’individualismo che fomenta e rinforza lo stato d’isolamento di tutti, non solo di quelli che si ammalano.

Si devono implementare progetti che vadano nella direzione della valorizzazione della coscienza sociale, del rispetto per l’ambiente e della diversità, soprattutto partendo da quella dei più deboli.

Dobbiamo ricordarci che se stanno male i più deboli stanno male anche i più ricchi, perchè il benessere è un fatto sociale e non individuale.

Ultimo aggiornamento: 12/03/24